“Il tempo è ciò in virtù del quale tutto diventa nulla nelle nostre mani e perde ogni valore reale”. (Arthur Schopenhauer)

Secondo il pensiero popolare, il pessimismo è una visione necessariamente associata a sentimenti di depressione, disperazione e mancanza di speranza. Tuttavia, come spesso accade con il pensiero popolare, questa idea è falsa.

Al contrario, alcuni dei più famosi pensatori pessimisti consideravano il pessimismo non come una visione emotivamente paralizzante, ma come un modo di guardare il mondo che poteva fornire la forza e la conoscenza necessarie per fortificarsi contro la dura realtà dell’esistenza.

Come ha osservato Albert Camus:

“L’idea che una filosofia pessimista sia necessariamente una filosofia dello scoraggiamento è un’idea puerile [infantile], ma che ha bisogno di una confutazione troppo lunga”. (Albert Camus)

In questo video passeremo in rassegna brevemente le idee di alcuni famosi pessimisti degli ultimi cento anni, per finire con la difesa di una forma di pessimismo coniata come “pessimismo della forza” dal filosofo del XIX secolo Friedrich Nietzsche.

Sebbene il pessimismo sia stato definito in molti modi, ai fini di questo video lo classificheremo come sostenitore di una convinzione centrale: quella che, sebbene gli esseri umani abbiano avuto un grande successo dal punto di vista evolutivo – in grado di adattarsi e sopravvivere in una varietà impressionante di ambienti – quando si tratta di raggiungere una vita non dominata dalla sofferenza e dall’insoddisfazione, gli esseri umani sono dei falliti.

La figura che più viene in mente quando si pensa al pessimismo, Arthur Schopenhauer, ha trasmesso questo punto dicendo che:

“Se lo scopo immediato e diretto della vita non è la sofferenza, allora la nostra esistenza è la più mal adattata al suo scopo nel mondo”.

A partire dal XVIII secolo, con il filosofo Jean Jacques Rousseau, spesso indicato come il primo pessimista moderno, sono emersi numerosi pensatori pessimisti che hanno cercato di scoprire l’origine del disallineamento tra noi e il mondo che abitiamo.

Sebbene questi pessimisti differiscano nella loro diagnosi, come ha notato Joshua Dienstag nel suo eccellente libro, Pessimism: Philosophy, Ethic, Spirit, un tema comune pervadeva il loro pensiero. L’esistenza umana è così carica di sofferenza e di miseria, sostenevano, a causa del fardello che la nostra consapevolezza del tempo, unicamente umana, ci impone.

“Tutte le tragedie che possiamo immaginare”, scriveva la filosofa francese Simone Weil, “ritornano alla fine all’unica e sola tragedia: il passare del tempo”.

Anche il filosofo rumeno del XX secolo Emil Cioran ha individuato nel “carattere demoniaco del tempo” un problema fondamentale per gli esseri umani. La nostra consapevolezza del passato e del futuro, concordavano i pessimisti, è responsabile di gran parte dell’ansia, della paura, del rimpianto e dei sensi di colpa che pervadono e in un certo senso definiscono la vita di tutti noi.

Nietzsche era particolarmente sensibile al peso che la consapevolezza del passato pone sul nostro essere, riferendosi al passato come “la pietra che era”, che non può essere spostata o cambiata, per quanto ci si sforzi.

Portiamo con noi gli errori, i rimpianti e le delusioni del passato e nascono sensi di colpa per le cose che non possiamo cambiare. Anche i ricordi gioiosi portano con sé una forte sfumatura di nostalgia e di dolore, perché ciò che è passato è perduto per sempre, per non essere mai più.

Come scrisse Nietzsche in Così parlò Zarathustra, il passato ci pesa così tanto proprio perché rimane per sempre fuori dalla nostra portata, inamovibile e immutabile.

“La volontà libera; ma come si chiama ciò che mette in catene anche il liberatore? / “È stato”: questo è lo stridore di denti e il dolore più solitario della volontà. Impotente rispetto a ciò che è stato fatto, è uno spettatore arrabbiato di tutto ciò che è passato. / La volontà non è in grado di volere all’indietro; non può rompere il tempo e il desiderio del tempo: questo è il dolore più grande della volontà” (Così parlò Zarathustra).

Per sfuggire al peso del passato, molte persone dirigono la loro consapevolezza verso il futuro, nella speranza di cose migliori a venire. Tuttavia, i pessimisti pensavano che ci fossero due problemi principali nell’aspettarsi troppo dal futuro e nel dipendere troppo da esso.

In primo luogo, ponendo troppa enfasi sul futuro si degrada in un certo senso il momento presente. Così facendo, invece di trovare il modo di ottenere una parvenza di soddisfazione nel momento attuale, si giustifica la propria infelicità attuale dicendosi che si sarà felici quando arriverà il futuro. Come notava Blaise Pascal:

“Il futuro da solo è la nostra fine. Così non viviamo mai, ma speriamo di vivere; e poiché ci prepariamo sempre a essere felici, è inevitabile che non lo siamo mai”. (Blaise Pascal)

Il secondo problema che i pessimisti vedevano nell’affidarsi troppo al futuro derivava dalla loro convinzione che, sebbene il mondo sia ordinato, contiene anche un elemento caotico fondamentale, di cui siamo in balia, e che può in qualsiasi momento irrompere nella nostra vita e distruggere o alterare drasticamente tutti i nostri piani, sogni e aspettative.

“Il pessimismo”, scriveva Nietzsche, “è la conseguenza dell’assoluta illogicità dell’ordine del mondo”.

Sebbene possiamo influenzare, plasmare e in parte modellare il futuro attraverso le nostre intenzioni e le nostre azioni, alla fine siamo trascesi da forze molto più grandi che non sembrano preoccuparsi dei nostri desideri. Una malattia imprevista, una tragedia o un tradimento da parte di qualcuno di cui ci fidavamo possono presentarsi in qualsiasi momento, distruggendo completamente la nostra concezione di ciò che pensavamo ci riservasse il futuro.

Infine, se il fardello che la consapevolezza del passato e del futuro pone sulle nostre spalle non fosse abbastanza pesante, la consapevolezza del tempo ci permette anche di conoscere la nostra morte sempre imminente.

Tutti noi reprimiamo e neghiamo questa conoscenza in una miriade di modi, ma ci sono momenti lucidi nella nostra vita in cui l’agghiacciante consapevolezza che il nulla ci attende ci colpisce con una forza improvvisa e implacabile. Miguel de Unamuno ha descritto il suo confronto particolarmente agghiacciante e lucido con la consapevolezza del destino che ci attende tutti:

“Una notte mi calò nella mente uno di quei sogni cupi, tristi e luttuosi che non riesco a scacciare dai miei pensieri… Sognai che ero sposato, che avevo un figlio, che questo figlio moriva e che sul suo corpo… dicevo a mia moglie: “Guarda il nostro amore! Tra poco si estinguerà: è così che tutto finisce”” (Miguel de Unamuno).

Si può ipotizzare che un antidoto al peso che la consapevolezza del tempo pone sulla nostra esistenza sia quello di vivere pienamente all’interno e di trarre il massimo piacere e la massima gioia possibile dal momento presente. Emil Cioran ha sostenuto questo approccio alla vita già nei suoi scritti.

“Soffri, poi bevi il piacere fino all’ultima goccia, piangi o ridi, urla di disperazione o di gioia, canta la morte o l’amore, perché nulla durerà” (Sulle alture della disperazione).

In seguito Cioran scartò questa “fuga” dal peso della consapevolezza del tempo. Il momento presente, infatti, è fugace, sempre in movimento, e anche il più gioioso ed estatico dei momenti scomparirà presto nel nulla, lasciando in mezzo a sé solo ricordi sempre più sbiaditi. Riferendosi alla modalità di vita in cui si vive solo per il momento presente, Schopenhauer scrisse:

“Ma si potrebbe benissimo chiamare questo modo di vivere la più grande follia: perché ciò che in un attimo cessa di esistere, che svanisce completamente come un sogno, non può essere degno di alcuno sforzo serio.” (Schopenhauer)

La “deperibilità di tutte le cose esistenti nel tempo”, per dirla con Schopenhauer, stimola in chi vive per il momento presente un riconoscimento ossessionante della transitorietà e della fragilità di tutte le cose, e una sensazione di perdita continua, poiché il momento presente svanisce per sempre nel passato.

Non c’è da stupirsi che gli antichi raffigurassero Crono, personificazione del tempo, mentre divorava i suoi figli. Il tempo ha un effetto distruttivo su tutti gli esseri viventi, ma solo noi esseri umani ne siamo consapevoli. È questa consapevolezza, per ribadire, che è la principale responsabile della sofferenza e dell’infelicità endemica della specie umana, secondo i pessimisti.

Data l’inevitabilità della frustrazione, della sofferenza e dell’infelicità per gli esseri umani, Arthur Schopenhauer condannava l’esistenza nel suo complesso, pensava che saremmo stati meglio se non fossimo mai esistiti e sosteneva una vita di rassegnazione ascetica in risposta alle dure realtà della vita.

Secondo lui, soffriremo grandi e piccole difficoltà fino alla tomba, ma possiamo ridurre al minimo la frustrazione e il dolore che proviamo se castriamo tutti i nostri desideri, non cerchiamo e non ci aspettiamo nulla, e costruiamo una fortezza intorno a noi per proteggerci dal mondo demoniaco:

“È davvero un’assurdità cercare di trasformare questa scena di dolore e di lamento in un luogo di piacere… . . Chi ha una visione cupa considera questo mondo come una specie di inferno e si preoccupa di conseguenza solo di procurarsi una piccola stanza a prova di fuoco, si sbaglia di molto” (Schopenhauer).

Anche se spesso amava negarlo, Nietzsche fu fortemente influenzato da Schopenhauer e concordò con la sua visione pessimistica dell’esistenza umana, scrivendo: “…per quanto l’uomo veda profondamente la vita, vede anche la sofferenza”.

Tuttavia, non poteva accettare la conclusione di Schopenhauer secondo cui la migliore risposta a una visione del mondo così pessimistica fosse quella di vivere una vita di rassegnazione, una forma di pessimismo che egli chiamava “pessimismo della debolezza”.

In effetti, Nietzsche si chiedeva perché si pensasse che il pessimista dovesse necessariamente abbandonarsi a sentimenti di depressione e disperazione:

“Il pessimismo è necessariamente un segno di declino, di decadenza, di degenerazione, di istinti stanchi e deboli?… Esiste un pessimismo di forza?”. (Nietzsche)

Nietzsche cominciò a capire che la credenza popolare secondo cui il pessimismo provoca sentimenti di depressione, disperazione e mancanza di speranza è una convinzione pericolosamente sbagliata. Egli propose invece che in realtà è vero il contrario: la visione del mondo che si adotta è il più delle volte causata dal temperamento di fondo dell’individuo.

Nietzsche ipotizzava che una persona con l’atteggiamento e il temperamento giusti potesse aderire al pessimismo senza tuttavia cedere a sentimenti di disperazione e rassegnazione, sentimenti ai quali molti pensano erroneamente che il pessimista debba necessariamente cedere.

Coloro che aderiscono a un pessimismo di debolezza, sosteneva, sono in realtà individui deboli e impotenti, che si rannicchiano di fronte alle sfide, e quindi utilizzano una visione pessimistica per giustificare la loro inazione e il loro rifiuto di impegnarsi in quel tipo di lotte che sono necessarie per affrontare i pesi della vita. Questi individui gravitano naturalmente verso una visione del mondo che presenta ogni azione come futile solo perché sono troppo deboli per agire di fronte ai fardelli e alle tragedie della vita.

È interessante notare che Nietzsche pensava che anche l’ottimismo potesse essere un segno di una debolezza di fondo, in quanto l’ottimista è colui che per paura si rifiuta di riconoscere gli aspetti oscuri e terrificanti dell’esistenza. Questa consapevolezza portò Nietzsche a definire l’ottimismo “moralmente parlando, una sorta di codardia”.

In contrasto con un pessimismo di debolezza, Nietzsche aderì a un pessimismo di forza. Un pessimismo di forza, come un pessimismo di debolezza, riconosce che la vita è pesante, tragica e si rende conto che la lotta e la sofferenza sono intrinseche alla condizione umana e quindi non possono essere sradicate. Tuttavia, invece di usare questa visione del mondo per giustificare l’inazione, l’impotenza e la rassegnazione, chi aderisce a un pessimismo di forza cerca di trarre gioia dalla tragedia che è la vita umana.

Chi aderisce a un pessimismo della forza valorizza lo sviluppo e la crescita al di sopra del comfort e della soddisfazione, e quindi vede la sofferenza non come una maledizione, ma come materiale prezioso da utilizzare per la trasfigurazione di sé in qualcosa di continuamente più saggio e più forte.

Il pessimista di forza si rende conto, con il poeta tedesco Friedrich Holderlin, che “chi calpesta la propria miseria sta più in alto”. Dando valore alla crescita più che alla comodità, il pessimista della forza non si rannicchia di fronte alle difficoltà e alle lotte, ma al contrario si rallegra e trae gioia da esse, e addirittura, osiamo dire, arriva ad amarle.

La fiducia nella vita è scomparsa”, scriveva Nietzsche, “la vita stessa è diventata un problema”. Tuttavia, non si dovrebbe saltare alla conclusione che questo renda necessariamente tristi. Anche l’amore per la vita è ancora possibile, solo che si ama in modo diverso” (La gaia scienza).