Nel suo capolavoro, Il mondo come volontà e rappresentazione, il filosofo tedesco del XIX secolo Arthur Schopenhauer scriveva:

“Perché se c’è qualcosa al mondo di desiderabile, così desiderabile che anche il gregge ottuso e incolto nei suoi momenti più riflessivi lo apprezzerebbe più dell’argento e dell’oro, è che un raggio di luce cada sull’oscurità della nostra esistenza, e che si ottenga qualche informazione su questa nostra vita enigmatica, in cui nulla è chiaro se non la sua miseria e la sua vanità”.

In questa serie di due parti esamineremo la filosofia di Arthur Schopenhauer. In questa lezione esamineremo la sua metafisica, ovvero la sua affermazione che il “mondo è volontà”, mentre nella seconda lezione indagheremo l’etica di Schopenhauer.

Come molti filosofi prima di lui, Schopenhauer proclama che la meraviglia è l’impulso che spinge gli individui a filosofare. Tuttavia, a differenza di altri filosofi, egli sosteneva che questa meraviglia nasce dal fatto che, in parole povere, il mondo è un posto così miserabile:

“Non solo il fatto che il mondo esista, ma ancor più che sia un mondo così misero e malinconico, è il problema tormentoso della metafisica”. (Il mondo come volontà e rappresentazione)

Schopenhauer riteneva che il ruolo della filosofia fosse quello di “mettere a nudo la vera natura del mondo” (Il mondo come volontà e rappresentazione), in modo da gettare un raggio di luce sulle tenebre di questa misera esistenza, e così facendo fornire consolazione al fragile e finito animale umano.

Secondo Schopenhauer, tutti coloro che lo avevano preceduto avevano fallito in questo progetto ed egli riteneva di essere l’unico ad aver scoperto la vera natura del mondo.

Così facendo, vedeva la sua filosofia come un grande dono all’umanità, un’oasi di pace nel tragico e misero deserto della vita:

“Fatta salva la limitazione della conoscenza umana, la mia filosofia è la vera soluzione dell’enigma del mondo”. (Il mondo come volontà e rappresentazione)

Schopenhauer non immaginava che la sua filosofia avrebbe attratto ed esaltato le masse, ma si rese conto che per la maggior parte degli individui l’esistenza del mondo non è affatto un mistero:

“Quanto più un uomo è in basso sotto il profilo intellettuale, tanto meno l’esistenza è per lui sconcertante e misteriosa; al contrario, tutto, come è e che è, gli sembra una cosa ovvia.” (Il mondo come volontà e rappresentazione)

Una posizione filosofica comune a molti di questi cosiddetti “uomini inferiori” è la convinzione che il mondo fisico, nel modo in cui lo percepiscono e lo sperimentano, abbia un’esistenza indipendente. Questa visione, come spiega bene Roger Scruton, è problematica:

“… come posso conoscere il mondo così com’è? Posso avere una conoscenza del mondo come sembra, poiché questa è solo una conoscenza delle mie percezioni, ricordi, pensieri e sentimenti attuali. Ma posso avere una conoscenza del mondo che non sia solo conoscenza di come appare? Per porre la domanda in forma un po’ più generale: posso avere una conoscenza del mondo che non sia solo conoscenza del mio punto di vista?”. (Roger Scruton, Kant: A Brief Insight)

La possibilità di una conoscenza oggettiva, o di una conoscenza “che non sia semplicemente il mio punto di vista”, è stata fortemente contestata dai filosofi nel corso della storia e questa disputa ha influenzato Schopenhauer, per cui illustreremo brevemente alcuni dei punti di vista più importanti.

Il filosofo tedesco G.W. Leibniz, membro della scuola filosofica nota come razionalismo, riteneva che attraverso l’uso della ragione fosse possibile ottenere una conoscenza oggettiva del mondo. David Hume, filosofo scozzese del XVIII secolo e membro della scuola filosofica nota come empirismo, non era d’accordo con Leibniz. Egli proponeva piuttosto che tutta la conoscenza del mondo fosse ottenuta attraverso l’esperienza e che quindi fosse sempre soggettiva e contaminata, per così dire, dalla prospettiva o dal punto di vista di chi conosce. La conoscenza oggettiva, secondo Hume, non è possibile per gli esseri umani.

Immanuel Kant, un filosofo tedesco del XVIII secolo a cui fu dato il soprannome di “polverizzatore di tutto” per aver presumibilmente distrutto le fondamenta su cui erano state costruite tutte le filosofie prima di lui, fu molto influenzato dalle idee sia di Leibniz che di Hume. Egli affermava infatti di essere stato risvegliato dal suo “sonno dogmatico” dalle idee di Hume. Kant era molto preoccupato di sapere se fosse possibile ottenere una conoscenza oggettiva del mondo e non era soddisfatto né del razionalismo di Leibniz né dell’empirismo di Hume. Ciò portò Kant a formulare la propria posizione, nota come “idealismo trascendentale”, che fu estremamente influente nello sviluppo della filosofia di Schopenhauer. A causa dell’impatto che Kant ebbe su Schopenhauer, dovremo discutere brevemente le idee di Kant prima di procedere con Schopenhauer; ma come avvertimento Kant è notoriamente difficile da capire e non c’è ancora un consenso generale sul significato di molti aspetti importanti della sua filosofia.

Una distinzione integrale fatta da Kant, essenziale per comprendere l’idealismo trascendentale, è quella tra il mondo come lo sperimentiamo, che viene chiamato mondo delle apparenze o mondo fenomenico, e il mondo come esiste indipendentemente dalla nostra esperienza, che è composto da quelle che Kant chiamava “cose in sé”. Secondo Kant non possiamo ottenere alcuna conoscenza delle “cose in sé”:

“… che cosa possano essere le cose in sé, io non lo so e non ho bisogno di saperlo, perché una cosa non mi si presenta mai altrimenti che come fenomeno”. (Immanuel Kant, Critica della ragion pura)

È solo il mondo delle apparenze che possiamo conoscere e secondo Kant questo mondo è organizzato o strutturato da principi fondamentali; in particolare lo spazio e il tempo, che Kant ha descritto come forme di intuizione, e la causalità, che Kant ha definito una categoria della comprensione. Lo spazio e il tempo, insieme alle 12 categorie individuate da Kant, di cui la causalità è solo una, strutturano o rendono possibile la nostra esperienza del mondo. Inoltre, secondo Kant lo spazio, il tempo e la causalità non sono caratteristiche delle cose in sé, o come spiega Christopher Janaway:

“Kant pensava che il mondo dell’apparenza dovesse occupare spazio e tempo. È ovviamente difficile immaginare che non ci siano spazio e tempo, ma Kant si spinse oltre e sostenne che senza di essi non poteva esistere un mondo conoscibile. Un discorso analogo vale per la causa e l’effetto e per il principio secondo cui le cose possono rimanere immutate nel tempo. Le regole del mondo empirico prevedono che esso contenga cose durature, disposte nello spazio e nel tempo e che abbiano effetti sistematici le une sulle altre. Nient’altro, sosteneva Kant, può essere considerato un mondo empirico che possiamo conoscere. Tuttavia, la sua affermazione più sorprendente è che tutte queste regole non sono presenti nel mondo come è in sé. Sono tutte regole che riguardano semplicemente il modo in cui il mondo deve essere se vogliamo essere in grado di farne esperienza”. (Schopenhauer: A Very Short Introduction, Christopher Janaway).

Leggendo Kant, Schopenhauer subì quella che definì una “rinascita intellettuale” e procedette a utilizzare le idee centrali di Kant come fondamenta su cui costruire il proprio edificio filosofico. L’interpretazione che Schopenhauer diede di Kant era che lo spazio, il tempo e la causalità non esistono nel mondo, ma sono invece caratteristiche della nostra mente che utilizza per costruire la nostra esperienza. Va notato che c’è ancora disaccordo sul fatto che Kant intendesse effettivamente che questi principi fossero caratteristiche della mente, tuttavia questo è il modo in cui Schopenhauer lo interpretò.

Il mondo come lo sperimentiamo è strutturato da oggetti disposti nello spazio e nel tempo che hanno relazioni causali con altre cose. Se lo spazio, il tempo e la causalità sono caratteristiche della mente, allora ne consegue, secondo Schopenhauer, che gli oggetti del mondo dipendono dalla mente per la loro esistenza e che il mondo come lo conosciamo è una rappresentazione creata dalla nostra mente. Schopenhauer espresse notoriamente questa posizione idealista proclamando: “Il mondo è la mia rappresentazione”.

L’idealismo di Schopenhauer, ovvero la sua convinzione che tutti gli oggetti dell’esperienza dipendano per la loro esistenza dal cervello, o da un soggetto conoscente, fu influenzato da Kant e dal famoso filosofo irlandese George Berkeley. Egli espresse la sua posizione idealista nella seguente citazione:

“… se di conseguenza cerchiamo di immaginare un mondo oggettivo senza un soggetto conoscente, allora ci rendiamo conto che ciò che stiamo immaginando in quel momento è in verità l’opposto di ciò che intendevamo, cioè nient’altro che il processo nell’intelletto di un essere conoscente che percepisce un mondo oggettivo, cioè proprio quello che avevamo cercato di escludere. Perché questo mondo percepibile e reale è ovviamente un fenomeno del cervello; e quindi nell’ipotesi che il mondo in quanto tale possa esistere indipendentemente da tutti i cervelli sta una contraddizione”. (Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione)

Sebbene Schopenhauer fosse d’accordo con i principi fondamentali delle idee di Kant, riteneva anche che ci fosse un’importante incoerenza al centro della sua filosofia. Sebbene Kant sostenesse che non possiamo mai conoscere la natura della realtà “in sé”, pensava che dovesse esistere qualcosa di indipendente da noi che fosse la causa delle nostre rappresentazioni, o del mondo che ci appare. Se non si fa questa postulazione, ragionava Kant, si dovrebbe arrivare all’assurda conclusione che le nostre rappresentazioni del mondo nascono dal nulla.

Kant proponeva l’esistenza di oggetti indipendenti dalla mente, o quelli che chiamava “trascendentali”, che sono la causa delle nostre rappresentazioni, ma di cui non possiamo mai accertare la natura. Tuttavia, per Schopenhauer questo non ha senso, poiché secondo la sua interpretazione dell’idealismo trascendentale di Kant lo spazio, il tempo e la causalità sono caratteristiche della mente. Ciò significa che non ha senso parlare di “cose in sé” che causano la nostra esperienza, poiché la causalità richiede un soggetto conoscente. Analogamente, poiché gli oggetti possono esistere solo all’interno dello spazio e del tempo, e poiché anche lo spazio e il tempo richiedono un soggetto conoscente, non ha senso parlare di oggetti che esistono in modo indipendente.

“… l’essere di un oggetto in generale appartiene alla forma dell’apparenza ed è condizionato dall’essere del soggetto in generale, così come il modo di apparire dell’oggetto è condizionato dalle forme di conoscenza del soggetto. Quindi, se la cosa in sé deve essere assunta, non può essere affatto un oggetto”. (Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione)

Schopenhauer, tuttavia, non era in disaccordo con Kant sul fatto che ci debba essere un qualche substrato alla base della nostra esperienza del mondo fenomenico. Tuttavia, non pensava che potessimo arrivare alla conoscenza di tale substrato guardando verso l’esterno gli oggetti della nostra esperienza:

“… sulla via della conoscenza oggettiva, partendo quindi dalla rappresentazione, non arriveremo mai oltre la rappresentazione, cioè il fenomeno. Rimarremo quindi all’esterno delle cose: non potremo mai penetrare nella loro natura interiore, e indagare ciò che esse sono in sé, in altre parole, ciò che possono essere da sé.” (Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione)

Schopenhauer pensava che il compito filosofico di mettere a nudo la vera natura interiore del mondo sarebbe stato impossibile se non fosse stato per il fatto che c’è un oggetto nel mondo che sperimentiamo dall’interno: il nostro stesso corpo:

“Di conseguenza, ci si apre una via dall’interno verso quella vera natura interiore delle cose che non possiamo penetrare dall’esterno. Si tratta, per così dire, di un passaggio sotterraneo, di un’alleanza segreta che, come a tradimento, ci pone tutti insieme nella fortezza che non può essere espugnata con un attacco dall’esterno”. (Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione)

Quando dirigiamo la nostra consapevolezza verso l’interno, Schopenhauer sosteneva che avremmo scoperto al centro del nostro essere un istinto o una forza inconscia caratterizzata da un’inquieta tensione. Questa forza al centro del nostro essere Schopenhauer la chiamava “volontà”. In realtà, Schopenhauer pensava che il nostro corpo fosse una manifestazione della volontà, così che il nostro corpo e la nostra volontà sono in realtà una stessa cosa che ci viene presentata in due modi diversi: il nostro corpo ci viene presentato sotto forma di rappresentazioni, mentre la nostra volontà ci viene presentata attraverso l’esperienza interiore diretta. Poiché proponeva che possiamo intuire più chiaramente il desiderio grezzo che è la volontà dentro di noi durante l’atto sessuale e quando i nostri istinti di sopravvivenza sono attivati, lo chiamava anche “volontà di vivere”.

Sebbene il nostro corpo sia l’unico oggetto al mondo a cui abbiamo accesso interiore, Schopenhauer pensava che, poiché è evidente che tutta la vita si sforza fondamentalmente di sopravvivere, nutrirsi e propagarsi, fosse giustificato affermare che tutte le forme di vita sono simili a noi in quanto anch’esse manifestazioni della volontà di vivere, o volontà:

“Tutto preme e si sforza di esistere… Chiunque consideri questo desiderio universale di vita, veda l’infinita disponibilità, facilità ed esuberanza con cui la volontà di vivere preme impetuosamente verso l’esistenza sotto un milione di forme ovunque e in ogni momento… In tali fenomeni, allora, diventa visibile che ho ragione nel dichiarare che la volontà di vivere è ciò che non può essere ulteriormente spiegato, ma si trova alla base di ogni spiegazione…” (Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione).

Schopenhauer non riteneva opportuno affermare che solo la vita organica fosse la manifestazione della volontà, ma non la natura inorganica. Ciò avrebbe introdotto nel mondo un’inutile divisione tra organico e inorganico. Invece, Schopenhauer sosteneva che non solo la volontà è la vera natura interna di tutte le forme di vita, ma di tutto ciò che esiste. È, come scrisse, “il nocciolo della realtà stessa”.

“Dobbiamo quindi applicare la chiave per la comprensione della natura interiore delle cose, una chiave che solo la conoscenza immediata della nostra natura interiore potrebbe darci, anche a questi fenomeni del mondo inorganico, che sono i più lontani di tutti da noi… Perché questa parola indica ciò che è l’essere-in-sé di ogni cosa nel mondo, ed è l’unico nucleo di ogni fenomeno”. (Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione)

Poiché tutto in questo mondo, sia organico che inorganico, è una manifestazione della volontà, nel suo nucleo ogni cosa è un tutt’uno con ogni altra; la separatezza di tutte le cose non è altro che un’illusione. Questa conclusione di Schopenhauer è per molti versi parallela a quella contenuta nelle Upanishad, il testo che fonda le basi dell’induismo: “Questo sei”. Chi percepisce e chi è percepito sono una cosa sola. Sebbene si sappia che Schopenhauer ha studiato la filosofia orientale, è arrivato a questa posizione in modo indipendente, prima di conoscere le Upanishad.

Alcuni filosofi nel corso della storia, forse soprattutto Spinoza, hanno aderito al panteismo e sostenuto che questo mondo è la manifestazione di un Dio divino e benevolo. Schopenhauer, in quanto ateo, riteneva ridicola la posizione panteista, poiché proclamava che se il panteista avesse aperto gli occhi sulla miseria del mondo avrebbe “dovuto ammettere che un Dio che avesse avuto la presunzione di trasformarsi in un tale mondo sarebbe stato certamente inevitabilmente turbato e tormentato dal diavolo”. (Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione).

Invece di essere una manifestazione di Dio, Schopenhauer pensava che il mondo fosse una manifestazione della volontà, che è un impulso o una forza cieca che non è divina o benevola, ma “demoniaca”. In quanto manifestazioni della volontà, tutta la vita si sforza ciecamente di nutrirsi e propagarsi. Tuttavia, poiché gli organismi devono nutrirsi di altri organismi per nutrirsi, e tutti gli organismi sono manifestazioni di volontà, Schopenhauer conclude che “la volontà deve vivere di se stessa, perché non esiste nulla al di fuori di essa, ed è una volontà affamata.” (Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione)

Per trasmettere il dolore e l’orrore che si generano quando le manifestazioni della volontà si nutrono l’una dell’altra, Schopenhauer trasmette un’immagine suggestiva riportando con le sue parole il racconto di un esploratore europeo.

Schopenhauer descrive come l’esploratore vide “un immenso campo interamente coperto di scheletri, e pensò che fosse un campo di battaglia. Ma non erano altro che scheletri di grandi tartarughe, lunghe un metro e mezzo, larghe un metro e mezzo e di uguale altezza. Queste tartarughe giungono qui dal mare per deporre le uova e vengono poi catturate dai cani selvatici; con la loro forza congiunta, questi cani le adagiano sul dorso, squarciano la loro corazza inferiore, le piccole squame del ventre, e le divorano vive. Ma spesso una tigre si avventa sui cani. Tutta questa miseria si ripete migliaia e migliaia di volte, anno dopo anno. Per questo sono nate le tartarughe. Per quale motivo devono soffrire questa agonia? Qual è il senso di tutta questa scena di orrore? L’unica risposta è che la volontà di vivere si oggettiva in questo modo”. (Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione)

Nella prossima lezione indagheremo il lato etico della filosofia di Schopenhauer. In altre parole, esamineremo cosa significa per noi esseri umani essere manifestazioni di volontà e come questa consapevolezza dovrebbe guidare la nostra azione. Come vedremo, in quanto manifestazioni della volontà siamo condannati a una vita di miseria, dolore e sofferenza e, secondo Schopenhauer, c’è solo una cosa che possiamo fare se vogliamo trovare una parvenza di pace su questa misera terra: dobbiamo fuggire dalla volontà.